Esther Diana 
una scrittrice tra realtà e magia

Perché si scrivono romanzi?

Il più delle volte per ‘sistemare’ cose, sensazioni, rapporti che non siamo riusciti a gestire nella realtà e che ormai appartengono ad un passato che, tuttavia, non siamo riusciti a ‘chiudere’. In questo caso siamo di fronte ad una specie di ‘sgravamento’ dell’anima.

Oppure si scrive perché tutto quello che abbiamo nel cuore – di bello o di brutto – ci sovrasta al punto che ce ne dobbiamo – in qualche modo – liberare.

O, ancora, si scrive per la voglia di percorrere un sentiero di cui sappiamo solo dove e quando inizia – e questo è l’input della storia – ma che non sappiamo dove ci porterà. E questo, a mio parere, è l’aspetto più intrigante e entusiasmante.

Non si scrive perché ‘ non si ha ‘nulla da fare’…siete d’accordo?

Sull'autrice

Non ho mai pensato di scrivere romanzi. Nella mia vita ho scritto tanto occupandomi di storia dell’architettura sanitaria, soprattutto di ospedali storici e dei loro, vastissimi e preziosi, patrimoni artistici e documentari. Ma i miei sono stati saggi e libri in cui la trama si dipanava lungo un percorso storico documentato, oggetto di analisi critica ed interpretativa. Nulla di fantastico e, soprattutto, di personale. Una semplice – più o meno forbita – disamina su fatti, contesti, situazioni, personaggi, esigenze sociali.

L’unico momento in cui mi sono soffermata su qualcosa di diverso dall’interpretazione storica è accaduto molti anni fa, durante gli studi per la mia tesi in architettura. Ebbene, mentre leggevo da un cronachista settecentesco l’annotazione riguardante la vita dissipata di una donna fiorentina del 1600, fui così disturbata da quanto leggevo che per un momento pensai che dovevo fare qualcosa, dovevo saperne di più. Quella storia proposta da una indubbia mano maschile doveva essere, in realtà, una storia di sopraffazione subita. Sono una convinta femminista che apprezza e ama gli uomini e che conosce le donne: conosco le nostre virtù ma anche quelle debolezze, quelle insicurezze che, spesso, ancora, non riusciamo a troncare del tutto e che ci conducono, a volte, verso comportamenti e scelte sbagliate.

Pensai così di scrivere su Caterina (questo è il nome della donna protagonista di quell’annotazione che è diventata la protagonista del mio primo romanzo (per la stampa, in realtà, del terzo) ma sempre secondo quello schema a cui ero abituata per professione: ovvero cercare nei documenti d’archivio notizie, chiarimenti quali palinsesto per la costruzione storica.

Niente di romanzato; niente che derivasse da una mia personale interpretazione.

Il lavoro mi ha distolto per anni da questo proposito fino a che è successo un ‘qualcosa’. Un ‘qualcosa’ di strano che mi ha fatto violentemente – ed è proprio la parola giusta – travolgere da un fiume in piena.

Ero in macchina diretta a Salina e mentre parlavo con mio marito – su cosa non ricordo più – qualcosa ha ridestato improvvisamente il ricordo di quell’annotazione storica che, in quel preciso momento, seppi non voler più ‘studiare’, bensì ‘interpretare’ infondendo alla storia di quella vita oltraggiata tutto lo sdegno, l’angoscia che ancora oggi noi donne subiamo per furie maschili.

Ecco, da quel giorno di settembre di alcuni anni fa è iniziata la mia attività di scrittrice e l’ho voluta realizzare – senza alcuna presunzione di riuscita! – non contattando quelle case editrici con le quali sono venuta in contatto nel corso della mia attività di storica.

Ho voluto cercare una casa editrice che mi ‘accettasse’ non perché portavo dei finanziamenti, bensì perché reputava il mio lavoro quel tanto di passabile da poterci scommettere.